La Cassazione, nell’esaminare i criteri d’imputazione oggettiva nell’ambito della responsabilità da reato degli Enti, rappresentati dall’«interesse o al vantaggio», ritorna ad impiegare la nozione dell’interesse “misto”, questa volta in una prospettiva ed interpretazione del tutto nuova e non poco estensiva.
Punto di partenza e di riferimento per l’analisi del tema in questione è il dettato dell’art. 5 del D.Lgs. n. 231/2001, stabilendo che l’Ente è responsabile “per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio”, responsabilità che può venir meno solo dimostrando che gli autori del reato abbiano agito “nell’interesse esclusivo proprio o di terzi” ed essendo necessario che gli autori siano persone fisiche qualificate dalla posizione apicale ricoperta all’interno dell’organizzazione, ossia “persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale, nonché persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso”, ovvero “persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza”, cioè in posizione subordinata rispetto ai primi.
Una delle maggiori critiche mossa al Legislatore attiene al fatto di aver completamente omesso di affrontare la questione della configurabilità di un “interesse di gruppo”, tematica di non poco momento, ove si consideri la peculiare organizzazione della maggior parte delle imprese italiane (e straniere) di medio-grandi dimensioni. Come accade di frequente, alla “dimenticanza” legislativa ha sopperito la giurisprudenza prima di merito e poi di legittimità, ricorrendo proprio alla tesi del cd. interesse misto, andando a valutare la condotta posta in essere dalla persona giuridica nel complesso di società controllate e controllanti che partecipano agli utili, nonché su quella fisica autore del reato-presupposto, legata all’interesse dell’ente ed a quello eventualmente esclusivo delle persone fisiche.
La prima pronuncia è stata del G.I.P. del Tribunale Milano in data 26 febbraio 2007, in relazione al reato di manipolazione del mercato, affermando che la nozione di “interesse di gruppo”, si basa nel considerare tra i soggetti capaci di impegnare la responsabilità dell’ente, sia colui che è “posto al vertice di un’unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale, quale potrebbe essere considerata il “vertice” della società controllata, ora sulla possibilità di considerare i vertici della società controllante come soggetti che esercitano di fatto la gestione ed il controllo dell’ente, idonei ex art. 5 ad impegnare la responsabilità dell’ente. Appare evidente che, in presenza di gruppi d’imprese, il perseguire l’interesse di gruppo attraverso la commissione di un reato, realizza una delle condizioni richieste ai fini dell’integrazione dei criteri d’imputazione oggettiva della responsabilità”. E’ per tale ragione dunque che l’interesse potrà definirsi “misto”, in quanto il soggetto apicale mira a conseguire non solo l’interesse proprio ma pur sempre rivolto all’organizzazione che presiede, ma anche della persona giuridica (o di più soggetti, proprio in caso di gruppi d’imprese).
Dopo questa pronuncia, se ne sono susseguite delle altre (Sez. V, 20 giugno 2011, n. 24583; Sez. VI, 9 dicembre 2016, n. 52316), nell’ambito delle quali, partendo dal presupposto che sussiste la responsabilità amministrativa da reato in capo alla holding od alle altre società comunque appartenenti al “gruppo” per eventuali illeciti commessi da una loro controllata appartenente al medesimo gruppo, allorché il soggetto agente persona fisica sia in possesso della qualifica soggettiva necessaria ai sensi dell’art. 5 D.Lgs. n. 231/2001 e debba agire per conto della holding. E’ stato pertanto ribadito il seguente principio: “una società che, nel commettere un illecito nel proprio interesse, concretizza anche un vantaggio per una altra componente dell’aggregato, è perfettamente coincidente con il concetto di “interesse misto” identificabile attraverso il combinato disposto dell’art. 5 comma 2, 12 comma 1 lett. s) e 13 ult.co. D.Lgs. 231/2001”.
Nella vicenda esaminata, la Sezione II della Cassazione Peale (4132-3op-10-Cassazione 26238_2022, qui allegata), ha deciso di spingersi oltre. Il giudizio cautelare è stato avviato dall’Ente avverso il Decreto di sequestro preventivo, “finalizzato alla confisca diretta ai sensi degli artt. 240 cod. pen., 19, comma 1, e 53 d. Igs 231/2001 in relazione al delitto di truffa ex art. 640 bis cod. pen., della somma di euro 1.457.049,46 sul conto corrente intestato alla […] ovvero alla confisca per equivalente sino alla concorrenza della cennata somma sui beni di proprietà della stessa impresa”, in relazione all’esecuzione dei lavori di bonifica e messa in sicurezza permanente di un’ex discarica comunale, finanziati con fondi e contributi della Regione Campania, dato che, nel corso delle indagini, erano state riscontrate “numerose difformità tra il progetto e i lavori eseguiti, essendosi in particolare accertato che non tutti i rifiuti allocati nella zona B erano stati rimossi mentre nella c.d. zona A risultavano confluiti rifiuti in quantità pari al triplo rispetto a quelli provenienti dalla zona B, diversi per natura e tipologia da quelli insistenti nel sito, constatazione alla base del contestato reato ex art. 256, comma 3, d.lgs 152/06 e della fattispecie di truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche”. La Società, tra le varie argomentazioni, ha impostato la sua difesa, contestando l’omessa motivazione in ordine all’avvenuta adozione del Modello organizzativo che prevedeva, tra le aree a rischio, proprio le fattispecie oggetto di contestazione, oltre alla nomina dell’Organismo di Vigilanza che ne verificasse la concreta applicazione, oltre che in ordine ai criteri di imputazione dell’interesse o vantaggio dell’ente rispetto ai reati commessi, avendo omesso di valutare debitamente che i reati di truffa e discarica abusiva erano stati commessi da soggetto non apicale, il direttore dei lavori, rispetto al quale la responsabilità dell’ente è configurabile solo in ipotesi di inosservanza degli obblighi di direzione e vigilanza la cui prova, nella specie non sussistente, spetta all’accusa e parimenti indimostrata è l’ipotesi di elusione fraudolenta del modello organizzativo.
La Cassazione, nel ribadire che i concetti di “interesse” e “vantaggio” non costituiscono un’endiadi e devono essere tenuti normativamente distinti, non ha mancato di evidenziare come “il reato presupposto può essere funzionale al soddisfacimento dell’interesse concorrente di una pluralità di soggetti, può, cioè, essere un interesse “misto” (Sez. 6, n. 24559 del 22 maggio 2013, Rv. 255442; Sez. 5, n. 10265 del 28/11/2013, dep. 2014, Rv. 258574; Sez. 6, n. 54640 del 25/09/2018, Rv. 274686 – 03).[…] l‘ordinanza impugnata ha rimarcato che il delitto di truffa aggravata vede indagati i vertici della società ricorrente […],esplicitando le condotte fraudolente loro addebitate e il conseguimento da parte della società di erogazioni pubbliche non dovute. Ha, inoltre, sottolineato che le modalità delle condotte contestate a soggetti apicali della compagine inducono ad escludere l’efficace attuazione di modelli organizzativi volti a prevenire illeciti quale quello per cui si procede. La ricorrente, svalutando il criterio di imputazione oggettiva, persuasivamente scrutinato dai giudici cautelari, ha concentrato i propri rilievi sul c.d. criterio di imputazione soggettiva (artt. 6 e 7 d.lgs 231), alla cui stregua l’ente va esente da responsabilità se ha efficacemente adottato un modello di organizzazione e gestione idoneo ad impedire la commissione di uno dei reati realizzati da soggetto che ricopra al suo interno posizioni apicali ovvero subordinate. Tuttavia, la pretesa idoneità del modello organizzativo e la conseguente esclusione di colpevolezza dell’ente, […] riposa su assunti apodittici, quale l’integrale delega dell’esecuzione del contratto al direttore dei lavori che avrebbe operato senza interferenza dei soggetti apicali indagati”.
A prescindere dalla circostanza esaminata nel caso esaminato, secondo cui i contenuti delle delega e dei poteri concretamente attribuiti dagli organi di vertici al Direttore dei lavori costituiscono accertamenti nel merito della vicenda, che il giudicato cautelare non può e non deve essere chiamato ad esaminare, ciò che più conta è evidenziare come queste prese di posizione della Cassazione tendenti a leggere la normativa 231 in maniera sempre più ampia, devono far riflettere gli Enti sul fatto che l’adozione di un Modello di Organizzazione Gestione e Controllo (ancorché supportato dalla nomina di un OdV autonomo e competente, che ne verifica l’effettiva attuazione) non può essere considerata condotta sufficiente ai fini dell’esonero dalla relativa responsabilità cosiddetta amministrativa. Sarà allora altrettanto necessario accompagnare l’elaborazione, l’aggiornamento e l’applicazione dei contenuti di detto documento con un sistema effettivo di deleghe e conferimento di procure che possano dimostrare la sussistenza di un’efficiente organizzazione aziendale, che si basa sulla ripartizione delle funzioni e dei poteri tra i diversi soggetti operanti nel contesto societario, con particolare riferimento a quelli di vertice che, solo in questo modo e fatta eccezione per il potere/dovere di verifica e controllo dei delegati, potranno essere esonerati da responsabilità per i fatti di reato commessi dai terzi.